Il fiume dimenticato
di Grazia Francescato e Giampiero Indelli
OASIS anno IX, n. 5, maggio 1993

Pubblicato nel 1993 sulla rivista Oasis, questo ampio articolo di Grazia Francescato e Giampiero Indelli, riccamente illustrato con foto di quest'ultimo, intendeva riportare al centro dell'attenzione il territorio solcato dal corso del Calore, rimarcandone le caratteristiche più interessanti dal punto di vista naturalistico e con gli auspici che l'allora istituendo Parco Nazionale del Cilento potesse finalmente innescarne la valorizzazione, garantendone la salvaguardia.

Un fiume segreto, che scorre da sempre ai margini della storia e della memoria collettiva. Mentre il vicino Sele, antico Silaros dei Greci e Siler dei romani è fiume storico per eccellenza, protagonista di primo piano delle cronache di viaggiatori illustri, da Plinio, Strabone e Gregorovius, il Calore sembra inghiottito da un "buco nero", rinchiuso in un silenzio che il passare dei secoli non pare scalfire.

Persino il nome non basta ad identificarne la sfuggente identità: per distinguerlo dal più noto Calore Irpino, affluente del Volturno, il Nostro è ulteriormente specificato come Lucano. Battesimo distratto, considerato che il Calore è fiume totalmente campano: nasce infatti dal Monte Cervati, la più alta vetta della Campania, e dopo 62 chilometri attraverso il Cilento interno (dove forma un bacino di 780 chilometri quadrati) si getta nel Sele, di cui costituisce uno dei più importanti affluenti. Altrettanto distratte, e fuggevoli, le scarse citazioni che il fiume colleziona nella pur vastissima bibliografia dedicata alla piana del Sele e del Cilento. I diari dei re borbonici, che si danno ai riti venatori nella sottostante tenuta di caccia di Persano, non dedicano un rigo alla valle del Calore, i cui boschi, peraltro, ospitavano una fauna non meno allettante di quella della vallata del Sele. I pittori del Settecento, che esaltarono il colore delle acque del "verde Sele", snobbarono le pur limpidissime sfumature del Calore; e la forza delle sue correnti non trova che qualche menzione, a dir il vero irritata, nelle lettere che l'architetto Luigi Vanvitelli, occupato nei lavori di ristrutturazione della casina reale di Persano, scriveva al fratello Urbano. In una missiva, datata "20 decembre 1757" il celebre artista si lagna degli effetti della piena del Sele e del Calore, alla confluenza (detta "La Ionta" , cioè "la giuntura") a monte dell'attuale ponte Barizzo, nei pressi di Borgo San Cesareo: "...siamo stati bloccati cinque giorni dalli fiumi che circondano il bosco di Persano, e il blocco cominciava a essere pernicioso a guisa di città assediata...". La "perniciosità" dei luoghi è accentuata, per i viaggiatori dell'epoca, dalla presenza di feroci briganti nelle boscaglie del Cilento interno. Se ne tengono lontani persino i tre botanici ottocenteschi Michele Tenore, Luigi Petagna e Giovanni Terrone che, la mattina del 3 luglio 1826, partono per un viaggio-ricognizione da Napoli verso "alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria con l'obiettivo di fare un inventario della flora meridionale. Nella loro pur meticolosissima peregrinazione i tre studiosi ignorano di aver appena sfiorato, transitando nei secolari boschi di Persano, a ridosso della roccaforte degli Alburni, un paradiso botanico gelosamente rinserrato nelle gole del Calore.

La rivincita di un fiume

Negletto dagli storici e dagli scienziati, confinato in un cono d'ombra che gli eventi umani non sembrano toccare, il Calore si prende la sua rivincita, alle soglie del Terzo Millennio, facendo del suo handicap secolare la sua carta vincente: la sua intatta wilderness lo candida oggi al ruolo di "fiume naturale" per antonomasia, molto più del "padre" Sele che, pur mantenendo un indubbio fascino, ha però visto la sua parte alta sfigurata dai poli industriali e dalla strada a scorrimento veloce nel fondovalle.

E il Calore ha tutte le carte in regola per conquistarsi un ruolo dominante tra i pochi "fiumi al naturale" rimasti nell'ex Bel Paese. A cominciare dalla sua tormentata ed enigmatica geologia: la parte alta del monte Cervati, da cui sgorgano le sorgenti del Nostro, è altamente carsicizzata, con frequenza di inghiottitoi, percorsi fluviali sotterranei, laghi ipogei che forano il massiccio e l'alta valle del Calore, segnata da profonde forre e ripide gole. Questi particolarissimi ambienti sono caratterizzati da una specializzazione climatica legata alla ridotta durata dell'insolazione diurna, al mantenimento di temperature minime e ad un'umidità elevata.

Peccato però che, proprio alle sorgenti, a 1124 metri di quota, il fiume riceva il primo affronto da parte dell'uomo: le sue acque, infatti, vengono immediatamente captate per alimentare l'omonimo acquedotto che le distribuisce a numerosi paesi del Cilento. Destino analogo a quello del "gran padre Sele", anch'esso "catturato" alle sue fonti per fornire risorse idriche alla Puglia. Così alla prima gola, che si snoda per alcuni chilometri a monte del paese di Piaggine, di acqua ne arriva ben poca. In compenso, il paesaggio di qui il meglio di sé: alte pareti calcaree precipitano a capofitto sulle anse del fiume, mentre sullo sfondo s'innalza il profilo austero del Cervati. Tutt'intorno, il bel paesaggio agrario del Cilento interno: un alternarsi di ulivi, muretti a secco, campi incolti chiusi da siepi di rosa canina e di sambuco (Sambucus ebulus). D'estate il verso ritmico della quaglia (Coturnix coturnix) s'allarga sul patchwork di piccoli prati e campi di grano superstiti, separati da creste rocciose presidiate dai culbianchi (Oenanthe oenanthe). E' il regno di allodole (Allauda arvensis) e prispoloni (Anthus trivialis), di cappellacce(Galerida cristata) e tottaville (Lullula arborea). Dal folto della faggeta vicina giunge il tubare sommesso di tortore (Streptopelia turtur) e colombacci (Columba palumbus) intervallato dal verso inconfondibile del cuculo (Cuculus canorus). Nel cielo alto della vallata volteggiano i corvi imperiali (Corvus corax), lanciando il loro chiamo, vera colonna sonora del paesaggio cilentano.

All'inizio dell'estate sciami di Amata phoegea si posano leggere sulle felci e le zigene si spostano fra i cardi e i fiori della lavanda (Lavandula stoechas).

Nei mesi freddi il terreno soffice e ricoperto di muschio del sottobosco dà rifugio alle beccacce (Scolopax rusticola) calate dai monti ormai ricoperti di neve. Le radure che si aprono qua e là nel bosco risuonano del verso nervoso delle tordele (Turdus viscivorus) che fanno la spola fra le grandi querce chiazzate di vischio.

Dall'alto delle rupi che s'affacciano sul fiume cala il verso del passero solitario (Monticola solitarius) che abita tutte le gole descritte nel servizio.

Dopo Piaggine, tra Valle dell'Angelo a Lazzine, si incontra la seconda gola. Una spettacolare parete - il monte Pescorubino - incombe sul fiume, annidato nel fondo: lungo le rive, fra i carpini (Ostrya carpinifolia e Carpinus Orientalis) e i lecci (Quercus ilex) alcune polle sorgive immettono acque in abbondanza nel corso del fiume che, così rinvigorito, s'infila nella terza gola, quella del Laurino, tappezzata da un manto compatto di verde. Fitte strisce di salici (Salix alba, Salix eleagrus, Salix purpurea) e di ontani neri (Alnus glutinosa) si addensano ai lati del Calore; a ridosso una fascia di carpini e, più a monte, un'intricata lecceta. Nel tratto finale, la gola di Laurino costeggia il bosco di Campora, una foresta di latifoglie tra le più superbe del Cilento interno.

Querce ciclopiche (Quercus cerris, Quercus pubescens, Quercus frainetto), spesso avviluppate da tenaci tralci d'edera (Hedera helix) svettano sulla macchia mediterranea formando composizioni da acquarello giapponese. D'autunno il verde cupo della macchia è ravvivato dai colori rosso e ruggine di ornielli (Fraxinus ornus) e di aceri (Acer obtusatum, Acer monospessulanum). Nella stagione primaverile, invece, dilaga il giallo vivido delle ginestre (Spartium junceum) e del maggiociondolo (Labumum anagyroides), alternati dal bianco vaporoso dei biancospini (Cratoegus monogyna). Nel fondo delle forre, dove il Calore ha l'aspetto di un torrente di montagna, vola il merlo acquaiolo (Cinclus cinclus) e sfreccia, nei tratti più aperti, il martin pescatore (Alcedo atthis).

Superato il cosiddetto "Ponte Rotto", il Calore smette finalmente di nascondersi ed esce allo scoperto. Dopo aver ricevuto il torrente Trenico, nelle cui acque fluttua a giugno la chioma rossiccia dell'Hippuris vulgaris, il fiume si dipana sinuoso in una valle abbracciata da basse colline fitte di querceti. E' il bosco "Scaraviello", un'estesa cerreta che accompagna la sponda destra del fiume, tappezzata da un denso sottobosco di erica (Erica arborea). L'intrico della vegetazione è interrotto qua e là da piccole radure e da esili vene d'acqua. Qui

Dominano i cinghiali (Sus scrofa), mentre nel bosco i colpi ritmici e rotondi dei picchi verdi (Picus viridis) al lavoro si alternano alla voce stridula delle qhiandaie (Garrulus glandarius). Ma il più elusivo e prezioso abitante del fiume senza dubbio la lontra (Lutra lutra), che proprio nel bacino Sele-Calore trova una delle sue ultime roccaforti nella penisola. Sotto le rupi di Magliano nuovo, un piccolo paese a picco sul fiume, il Calore s'addentra nella quarta gola, scavalcata all'imboccatura da un ponte di pietra, punteggiato da ciuffi viola di valeriana (Centranthus ruber) che domina una scenografica sequenza di salti d'acqua. Qui il fiume è davvero inaccessibile e la vegetazione quanto mai varia fra i grossi massi che spuntano dall'acqua crescono equiseti (Equisetum fluviatile, Equisetum arvense, Equisetum telmateja) e farfaracci (Petasites hybridus), mentre sulle rive s'infittiscono salici e ontani neri.

A mezza costa è il regno del carpino che, nelle aree più umide, ospita anche ornielli e frassini (Fraxinus excelsior). Aceri e roverelle s'innalzano agili mentre superbi viburni (Viburnum lantana) e allori (Laurus nobilis) punteggiano il sottobosco. Nei punti più soleggiati si espande rigogliosa la macchia mediterranea: grandi cespugli di mirto (Myrtus communis) e di lentisco (Pistacia lentiscus), filliree (Phillyrea latifolia, Phillyrea angustifolia) e corbezzoli (Arbutus unedo), ginestre e alaterni (Rhamnus alaternus) sovrastati da vaporosi ricami di erica.

Più in alto, la folta lecceta s'inerpica fino alle vette dei monti, punteggiata da isole di cerri e roverelle. Ma le protagoniste indiscusse di questo show botanico sono le felci, che trovano, nel sottobosco umido e poco illuminato dal sole, il loro habitat ideale.

Dalle rocce pendono i ciuffi sottili dell'Asplenium trichomanes, mescolato alle foglie spesse e carnose del Ceterach officinarum. Negli angoli più ombrosi spuntano le foglie dell'Asplenium onopteris, talvolta abbarbicato alle rocce in

compagnia della Selaginella denticulata. Pennacchi di Polypodium interjectum pendono dai tronchi degli alberi prossimi al fiume. Non è soltanto l'eccezionale flora ad affascinare il naturalista che esplora queste forre; l'ornitologo è in egual misura conquistato dalla magia di queste ripide pareti calcaree, territorio ottimale per una serie di rapaci, dal falco pellegrino (Falco peregrinus), alla poiana (Buteo buteo) all'astore (Accipiter gentilis), al gheppio (Falco tinnunculus): tutti nidificanti tra queste impervie rupi.

In questa gola e in quella successiva non è raro trovare sulle sponde rocciose del Calore numerose cavità, di forma perfettamente circolare, di varia ampiezza e profondità, con pareti levigate. Sono le cosiddette "marmitte dei giganti", la cui origine è dovuta all'azione delle acque di piena che, trascinando a valle in moto vorticoso frantumi di rocce, hanno scavato per attrito la roccia. Dopo la gola di Magliano, la valle si apre per un breve tratto nei pressi di una piccola traversa d'acqua, utilizzata dai contadini per irrigare i campi vicini.

Poche centinaia di metri più oltre, ecco la quinta e ultima forra, quella di Felitto. La percorre a mezza costa una canaletta che un tempo trasportava l'acqua sino a una centralina elettrica. Anche in questa gola la macchia mediterranea la fa da padrona; mentre nel sottobosco si accendono le chiazze vivide dei ciclamini (Cyclamen hederifolium), mentre spuntano le grandi foglie lanceolate del gigaro (Arum italicum) e, nei punti più umidi, quelle allungate e sottili della lingua cervina (Phyllitis scolopendrium). Sotto le ultime case del paese, la gola bruscamente s'arresta e il Calore, oltrepassato uno stretto ponte in pietra, s'allarga finalmente senza più ostacoli nell'ampia vallata che scorre ai piedi dei Monti Alburni.

Superato il paese di Altavilla, il Calore diventa infine un fiume di pianura, costeggiando gli ultimi rilievi collinari e la grande tenuta militare di Persano, un tempo paradiso di caccia dei Borboni, per poi gettarsi nelle acque del Sele. Fiume, lo abbiamo visto, tutto-natura e solo-natura il Calore ha dunque le carte in regola per candidarsi a stella di prima grandezza tra i beni naturalistici che il nuovo Parco del Cilento, previsto dalla legge-quadro 394, dovrebbe tutelare, sottraendoli alle minacce che anche in questo remoto angolo del Meridione attentano alla integrità degli ecosistemi. Vera spina dorsale di questa zona protetta, che per estensione (100 mila ettari) e per qualità degli ambienti naturali rappresenta uno degli ultimi serbatoi di wilderness dell'Europa meridionale, il Calore può a buon diritto essere considerato il filo conduttore che lega tra di loro i tasselli del mosaico della natura cilentana: dalle forre montane del Cervati ai boschi igrofili di Persano, dalle rupestri " torri" degli Alburni alla macchia mediterranea.

E tanto più vitale sarà per il Calore e gli ambienti circostanti una protezione al fine adeguata, se si tiene conto che sinora i ripetuti tentativi degli ecologisti (WWF in prima linea) di dare efficace tutela a queste zone è caduto nel vuoto. I protezionisti sono sì riusciti a far decretare "Riserva naturale" le Gole del Calore (con decreto del Ministero del 4 dicembre 1989), ma le misure di salvaguardia sono rimaste lettera morta e non si è neppure proceduto alla tabellazione della zona protetta sulla carta.

La rapida realizzazione del Parco del Cilento, mentre scriviamo ancora in alto mare, è dunque l'ultima grande occasione per garantire al Calore e all'intero Cilento il futuro che si meritano: un futuro "al naturale", proprio come il nostro fiume.

GRAZIA FRANCESCATO Presidente del WWF-ltalia
GIAMPIERO INDELLI Fotografo naturalista